Dare dell’incapace a qualcuno è diffamazione?

Cosa può succedere se scrivi che il tuo collega, un professionista o altro lavoratore sia “assolutamente incapace”? La persona che si sente offesa può querelare? Si rischia addirittura una condanna per diffamazione?

In un caso abbastanza recente, un signore era stato condannato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per il reato di diffamazione. Quale era stata la sua colpa? Quella di aver offeso, in una comunicazione destinata a più persone, la reputazione del direttore di un Pronto Soccorso, accusandolo di “incapacità” professionale nell’organizzazione del reparto. Il Tribunale aveva confermato la condanna a 300 euro di multa emessa dal Giudice di pace di Caserta. Ma l’imputato fece ricorso alla Corte di cassazione, ritenendo la condanna ingiusta.

Prima di scoprire la soluzione fornita dalla Cassazione, occorre sintetizzare brevemente le questioni e i principi rilevanti.

Il reato di diffamazione

Secondo l’articolo 595 del Codice penale, chiunque offende la reputazione altrui, comunicando con più persone in assenza della persona offesa, commette il reato di diffamazione. Una dichiarazione che offende la reputazione di un professionista o di altro lavoratore potrebbe dunque legittimare quest’ultimo a querelare l’offensore e/o chiedere il risarcimento dei danni morali e (eventualmente) patrimoniali prodotti dalla comunicazione diffamatoria.

Ora, affermare che taluno è professionalmente “incapace” potrebbe ledere la sua reputazione in ambito lavorativo… allora, è vietato dirlo? Non necessariamente. Vediamo perché…

Il diritto di critica

L’articolo 21 della Costituzione tutela la libertà di espressione del pensiero. Tra le diverse forme di espressione si annovera anche il diritto di critica. La democrazia si alimenta del pluralismo delle opinioni e la Costituzione tutela questo pluralismo, anche quando si estrinseca in opinioni negative, scomode o potenzialmente dannose. Ma come si armonizza il dovere di rispettare la reputazione altrui con il diritto di critica? Secondo la giurisprudenza costante, la critica è legittima se è:

  • Pertinente. Cioè deve corrispondere ad un interesse apprezzabile dei destinatari a conoscere l’oggetto della critica.
  • Continente. Cioè la critica non deve trasmodare in insulti gratuiti o volgari, attacchi lesivi della dignità della persona.

La critica deve anche affermare la verità? Bisogna distinguere il giudizio critico (cioè la valutazione eventualmente negativa) dai fatti che l’accompagnano o che sono presentati come presupposto della critica. Il giudizio critico, di per sé, non deve essere rigorosamente “vero” (è pur sempre un’opinione soggettiva). Invece, i fatti concreti eventualmente attribuiti alla persona offesa devono essere veri. Altrimenti, se i fatti sono falsi e denigratori, non ci si può nascondere dietro al “diritto di critica”.

La soluzione della Corte di cassazione

Se torniamo al nostro caso iniziale, possiamo applicare i principi appena esposti. La critica dell’imputato rispettava i criteri evidenziati dalla giurisprudenza? Per quanto riguarda la “pertinenza”, la risposta è sicuramente affermativa. L’imputato aveva indirizzato la comunicazione ai vertici dell’Ospedale e si trattava di una materia rilevante per loro. In relazione al criterio della “verità”, come si è detto, il giudizio critico di per sé non deve necessariamente essere “vero” in quanto esprime una valutazione soggettiva. Inoltre, la comunicazione richiamava avvenimenti che effettivamente avevano avuto luogo all’interno del reparto. E il criterio della continenza? Ecco come si è espressa la Corte di cassazione nel caso di specie (sez. penale V, sentenza n. 17243/2020):

«Quanto alla continenza, le espressioni critiche utilizzate non hanno trasmodato in un’aggressione gratuita alla sfera morale [dell’offeso], essendo consistite in una censura sull’attività di direzione del reparto, espressa con il termine “assoluta incapacità” di organizzare in modo adeguato il reparto, che, pur essendo oggettivamente offensiva della reputazione professionale, non risulta travalicare, nel contesto critico e valutativo della missiva, la forma civile dell’esposizione. L’espressione, infatti, non rivela un gratuito attacco alla persona, o una finalità meramente denigratoria, ma una critica, sia pure aspra, alle capacità organizzative – ritenute insufficienti – del direttore del reparto di Pronto Soccorso.»

In sintesi, affermare che qualcuno è incapace o incompetente nel suo lavoro non integra generalmente il reato di diffamazione, in quanto si tratta di un giudizio semplicemente critico che non eccede i limiti della continenza del linguaggio e non lede la dignità della persona in sé stessa.

Avv. A. Luis Andrea Fiore